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Poche band sono in grado di dividere il loro pubblico, e scatenare abbastanza regolarmente discussioni e polemiche anche molto accese, come gli Iron Maiden, complice la varietà stilistica che caratterizza la loro corposa discografia. La doverosa premessa è che chi vi scrive è un grande estimatore della produzione “reunion”, ritenendo tutti i dischi da “Brave New World” in poi, pur con qualche alto e basso, dei grandissimi lavori che mostrano una band che ha saputo rinnovarsi senza mai snaturarsi, in maniera forse imparagonabile a qualsiasi altra. Se i pareri sugli esordi con Di’ Anno al microfono sono rispettosi per quanto difformi, e quelli sui dischi di Blaze convergono quasi totalmente nello stroncare tanto le sue performance quanto la vena compositiva scadente, opinione piuttosto diffusa è altresì che il cammino percorso dai nostri dal 2000 in poi sia abbastanza discutibile, soprattutto in virtù della lunghezza eccessiva dei brani e della mancanza dell’irruenza e “spontaneità” dell’era d’oro (parliamo ovviamente del devastante quintetto da TNOTB a SSOASS).
The Final Frontier viene definito piuttosto spesso il peggior album della discografia: quei brani lunghi, quei tempi dispari, quelle melodie contorte, ma soprattutto quella copertina inguardabile e quell’orribile intro space-rock, in qualche modo risultano a qualcuno forse perfino peggiori della drammatica “The angel and the gambler”, o comunque della pochezza compositiva di Virtual XI o della produzione letteralmente “agricola” di X-Factor; pochissimi brani vengono graziati, non a caso scelti all’epoca dalla band per il tour promozionale dell’album.
A detta di chi scrive, a rendere l’album particolarmente controverso c’è il fatto che sono proprio i due brani di apertura (la title-track ed il singolo “El Dorado”) quelli più immediati e fruibili, in netto contrasto con gli elementi “prog” elencati poco fa; dovessi inserirli in un disco precedente penso che farebbero la loro porca figura in “No prayer for the dying”, grazie all’assenza categorica di tastiere, ai ritmi decisi, alle strutture semplici e anche ai ritornelli poco convincenti (il “the final frontier” ripetuto allo spasmo risulta anche a me molto poco efficace). Cosa ci dice tutto ciò? Per quanto mi riguarda il messaggio è molto chiaro: i tempi dei ritornelli memorabili (“run, live to fly…” per dirne uno) è bello che finito, quell’ispirazione giovanile e per certi versi testosteronica è bella che andata, ne abbiamo avuto qualche residuo su “Dance of death” (non mi si dica che il ritornello di “Wildest dreams” o di “Rainmaker” non sono da brividi, in quanto li sentii anche dal vivo a Firenze nel 2003), ma la band punta ora su altri elementi, di cui abbiamo però avuto più e più avvisaglie lungo tutta la discografia: vogliamo forse negare che I brani lunghi ed articolati (in gergo musicale “suite”) non sono certo una novità per gli Iron Maiden? Basti pensare alla leggendaria “Phantom of the Opera”, come pure a quasi tutti i brani di chiusura dei nostri 5 dischi preferiti (unica eccezione SSOASS dove la “suite” è la titletrack, a metà disco) e in realtà anche ai successivi (come non nominare Mother Russia e Fear of the Dark)… ma l’opinione diffusa e lapidaria sembra partire dall’assunto che brani di quel tipo, quando forse privati dell’ispirazione giovanile e quando vanno a costituire la maggior parte di un album, in qualche modo sembrano rovesciare i gusti del maideniano.

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Pollice in basso dunque per le aperture soffuse ed arpeggiate di Mother of Mercy e della prolissa Isle of Avalon (queste due penalizzate anche da ritornelli non certo pregiatissimi), di Starblind e di The Talisman, quest’ultima spesso graziata come accennavamo assieme alla conclusiva When the Wild Wind Blows di cui si può giusto assaggiare il furore sicuramente scatenato in sede live su “En Vivo!”: gli intro più o meno lunghi, i vari cambi di atmosfera e le strutture intrecciate sono probabilmente tollerabili per il fan “medio” considerato il piglio melodico straordinario; impossibile non rilevare però similitudini, grazie a quegli elementi “di disturbo”, con le altre “suite” che hanno fatto la storia.
Continuando, se un brano come Coming home viene a volte esaltato come la ballad migliore della carriera (io personalmente preferisco di gran lunga Journeyman e  Darkest Hour), si è più impietosi con The Alchemist, nonostante  sia l’ultimo brano della discografia con un beat così alto, pur mancando di altri particolari punti di forza e risultando un po’ monocorde (ma è anche abbastanza normale che i brani veloci lo siano!, non mi si venga a dire che Aces High, Gangland o Be quick or be dead vantano grandi escursioni dinamiche…).

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Concludendo, non posso che rimandarvi all’articolo del buon mr. Biggio in cui veniva analizzata l’evoluzione musicale dei nostri, e che potrei provare umilmente a riassumere così: è molto improbabile che un musicista che si rispetti suoni le stesse cose per tutta la vita, il sapersi mettere in gioco su terreni nuovi è un atto raro quanto coraggioso e quando la cosa riesce senza snaturarsi né autocitarsi eccessivamente, nonché senza perdere i tratti distintivi della propria produzione, ci si dovrebbe solo inchinare; detto questo è chiaro che non tutte le contaminazioni, le influenze e le evoluzioni possono incontrare il favore di tutto il pubblico, ma se tali contaminazioni sono disseminate in un numero di dischi ormai sovrapponibile ai vecchi “capisaldi”, beh, la domanda che dobbiamo farci è se ci piace davvero la band, o se sentiamo solo la mancanza di noi stessi quando l’abbiamo ascoltata le prime volte. Sarebbe poi interessante sentire il parere dei Maiden stessi: personalmente dubito che, benchè le esigenze di mercato li costringano forse a scelte severe per quanto riguarda le scalette live, non siano estremamente soddisfatti degli ultimi lavori – certamente la grinta sul palco non è mancata neppure nei periodi più bui e probabilmente non si pentono di nessun capitolo della loro discografia (basti pensare alle ultime lodi di Harris ai dischi di Bayley), ma se continuano a sfornare brani lunghi, è abbastanza scontato pensare che tale scelta sia ponderata e pienamente intenzionale. Personalmente reputando Book of Souls il capitolo più basso della reunion per la quantità di pezzi trascurabili, e Senjutsu un vero capolavoro… sono molto curioso di sapere cos’altro sforneranno.

E voi? Fatemelo sapere nei commenti!!

Up the Irons!! 🤘

Maestro Donatello Menna